L'aldilà per gli antichi romani

L'aldilà per i Romani: credenze, usanze funerarie, simboli e decorazioni funebri

L’aldilà non era qualcosa che interessava poi così tanto agli antichi romani. O almeno così – forse – volevano far credere! (Comunque, quello che è certo è che per secoli nulla ci parla di ciò nella loro arte e testimonianze.)

In generale, gli antichi romani credevano che solo chi avesse compiuto azioni eroiche (fosse stato un eroe) avrebbe poi, nell'aldilà, goduto dei Campi Elisi o comunque di una vita eterna bella e godibile. Per gli altri, invece, c'era solo un buio, tetro limbo. In seguito, però, si cominciò a credere che per tutti l'aldilà potesse essere un luogo tranquillo e sereno.

Ma, in fondo, i romani nemmeno speculavano troppo sull'aldilà: erano talmente 'pratici' che essi vivevano sostanzialmente solo per la vita terrena. E, solo in seguito, intorno a II secolo d.C., con il diffondersi delle religioni 'orientali'che erano incentrate soprattutto sul senso della vita e generalmente offrivano la possibilità di ottenere la salvezza e la vita eterna – cominciarono a diffondersi a Roma più diffusamente credenze più precise riguardo l’aldilà.

Queste religioni orientali si concentravano molto sul significato dell’esistenza e sulla salvezza dell’individuo. In effetti, il “culto ufficiale”, quello statale romano (che era stato ‘canonizzato’ da Augusto) era estraneo a tutto ciò. Le religioni orientali erano generalmente “misteriche” e personali, quelle tradizionali generalmente “pubbliche”, collettive. Quelle orientali erano ‘personali’ anche se potevano esistere anche cerimonie collettive; quelle tradizionali erano collettive, coinvolgevano tutti ed erano per il bene di tutti. Le religioni orientali erano misteriche nel senso che i membri non potevano rivelare nulla ai non iniziati; spesso, ai membri stessi i misteri venivano rivelati gradualmente. Le pratiche erano generalmente circondate dal più stretto riserbo. Ma, in fondo, non sarebbe nemmeno davvero possibile definire e descrivere pienamente le religioni misteriche, dato che si trattava generalmente di un’esperienza religiosa rituale volta alla conquista della salvezza individuale. La promessa di salvezza poggiava in genere sul mito di una divinità che muore e rinasce e le pratiche del culto dovevano consentire l’identificazione dell’iniziato con tale divinità.

 

Generalmente, i romani credevano che i morti tramutassero in manes (diis manibus), ossia gli dei mani. Erano sostanzialmente le anime degli antenati divinizzati e, non appena morti, vigilavano sulle tombe, garantendo protezione contro profanazioni o manomissioni. Generalmente, ogni tomba ha nell’iscrizione un riferimento agli dei mani.

I mani avevano anche la funzione proteggere gli esponenti ancora in vita della stessa famiglia. Ma, in realtà, va detto che quelli che si occupavano di proteggere soprattutto l'abitazione erano la 'versione' detta Lari. Infatti, nelle abitazioni romane erano spesso presenti i Larari, che erano genelmente piccole nicchie o comunque piccoli santuari a loro dedicati. Proteggevano il focolare domestico. Anche per questo i mani erano oggetto di divinazzazione e venerazione da parte della famiglia.

Si credeva che le anime dei defunti dimorassero sotto terra, proprio nei pressi della loro sepoltura. Non a caso le tombe romane erano provviste di tubi che collegavano le urne o i sarcofagi con l'esterno: i vivi potevano dunque con essi 'nutrire' i loro cari estinti o comunque simbolicamente consumare e condividere con loro il refrigerio, il pasto simbolico comune.

Non tutti i romani comunque credevano nei mani. Le persone che erano più 'materialistiche', come Plinio il vecchio, consideravano le questioni riguardanti i mani "molli fantasie" ed "invenzioni e sogni puerili dei mortali bramosi di non finire mai", che finiscono con il "venerare o mani e fare un dio di chi ha cessato anche di essere un uomo" (Storia naturale, 7, 56).

Ma esisteva anche un’altra credenza riguardo l'aldilà: che i morti potessero andare al di là dell'Oceano. In questo caso, le anime venivano lì trasportate da mostri marini. Per questo motivo abbiamo molte raffigurazioni di tali mostri nei sarcofagi antichi. Ma questi avevano talvolta forme talmente spaventose e strane da avere anche funzione apotropaica (cioè per allontanare gli spiriti cattivi e le cattive azioni ed intenzioni dei vivi, per proteggere insomma la tomba). Sono talvolta metà reali e metà fantastici, spesso coda di pesce e corpo di cavallo oppure caprone o leone. Talvolta hanno coda di pesce, corpo di leone e testa ed ali di aquila (grifone, dunque): è legato al culto di Dioniso.

Il tridente col delfino ad esso avvolto è un simbolo dell'anima rapita nell' aldilà. Può simboleggiare anche la scomparsa improvvisa di un congiunto. Artemidoro di Daldi, celebre indovino efesino del II sec d.C. scrisse che "sognare un delfino fuori dall'acqua presagiva la morte di una persona cara" (Interpretazione dei sogni, 2, 16).

Molte religioni prevedono l'ipotesi possibilità di andare in cielo ma perché le anime dovrebbero andare a finire nell'oceano o comunque in isole circondate da mare/acqua? È presto detto: già gli antichi avevano notato che nell'acqua (quella marina soprattutto) era presente una incredibile varietà di forme di vita e ciò veniva spiegato sostanzialmente per la sovrabbondanza di sostanze nutritive contenute nelle acque e ai confusi e molteplici intrecci genetici che si verificano negli abissi. Plinio il vecchio, nella descrizione degli animali acquatici scrive "qualsiasi cosa nasce in qualsiasi parte della natura si trova anche nel mare" (Storia naturale, 9, 2).

Ecco dunque che mostri marini ibridi vengono immaginati nei sarcofagi accompagnare le anime nel trapasso, quando non sì è più ciò che si era prima e prima di raggiungere la dimensione ultraterrena.

Magari proprio nell'Isola dei Beati, posto ai confini del mondo, oltre l'oceano "dove il suolo si non arato produce ogni anno il la frumento e non potata fiorisce per sempre la vite" (Orazio, Epodi, ali 16, 42-66).

Si poteva andare in cielo? Chi compiva azioni eroiche, chi era divinizzato forse sì! Ad esempio, l’imperatore Tito nell’arco a lui dedicato al Foro Romano è raffigurato portato in cielo.

Soprattutto nella tarda antichità i romani immaginavo l'aldilà come un luogo fresco. Tranquillo e sereno, come in campagna: ecco perché ci sono così spesso i pastori nei sarcofagi! Essi rimandano alla serenità della vita bucolica in campagna. E da queste immagini della 'tradizione' i primi artisti di opere cristiane assunsero per l'ispirazione per il Buon Pastore.

Si sperava semplicemente ad una vita beata e tranquilla: e quale posto è più consono e a quale pensiamo per primo se dobbiamo associarlo alla tranquillità? La campagna, ovviamente! Ecco dunque che abbondano i pastori all'ombra di alberi o con in braccio le loro pecore o arieti! Ma diciamoci la verità: come luogo calmo e sereno e beato noi pensiamo subito alla canonica isola calda e sperduta! Ecco tornare il concetto di isola delle anime, al confine del mondo, per immaginare in gran bel sereno aldilà! O forse era semplicemente il carpe diem!

Campagna, filosofia, isole sperdute, arti: tutte cose lontanissime dalla vita quotidiana fatta di lavoro stressante e logorante.

Le tombe dei romani sono comunque sempre posti sereni; dove tutto ricorda la serenità (sarà così anche nell'arte paleocristiana). Non ci sono praticamente mai immagini davvero tristi (a parte le statue 'pensierose' che meditano sulla effimera vita) ma solo immagini gaie e serene! Trasmettono senso di tranquillità.

 

Prima di approfondire i simboli, vediamo ora le pratiche e tradizioni funerarie degli antichi romani.

Dato che generalmente si moriva lentamente (e non di colpo) era usanza dei romani di riunirsi intorno al familiare moribondo. Tutta la famiglia si raccoglieva per assisterlo e confortarlo. Ed era poi il parente più stretto che aveva l'importante compito di baciare il moribondo per trattenere l'anima che si pensava a abbandonasse il corpo insieme all'ultimo respiro. La stessa persona gli chiudeva gli occhi, compiendo un gesto simbolico di umana pietà che è poi arrivato fino a noi attraverso i secoli. I presenti ripetevano allora ad alta voce il nome del defunto (conclamatio) e iniziavano a piangere il morto. Questa clamorosa esternazione del dolore aveva anche lo scopo di scongiurare eventuali morti apparenti.

Il defunto veniva quindi lavato, profumato e vestito con i suoi abiti migliori, per essere poi esposto con i piedi rivolti verso la porta in una camera ardente appositamente allestita. Intorno alla salma ardevano lampade e candelabri e sul cadavere venivano posti fiori, corone, ghirlande e bende. Iniziava così la veglia funebre che poteva durare anche alcuni giorni e che assumeva talvolta forme solenni: si conservano alcuni rilievi sepolcrali dei primi secoli dell'impero in cui abbiamo testimonianza di ciò.

Per le esequie ci si rivolgeva ai libitinarii, gli impresari di pompe funebri. Questi prendevano il nome dalla dea Libitina nel cui tempio si conservavano i registri mortuari. Poteva essere un'attività alquanto redditizia: nel Satyricon di Petronio, Gaio Giulio Proculo, impresario di pompe funebri al banchetto di Timalcione, arriva a possedere un milione di sesterzi e a vivere da gran signore prima di cadere in disgrazia a causa dei suoi liberti (Petronio, Satyricon, 7).

Esistevano corporazioni (collegia funeraticia), che si occupavano dei riti funebri del consociato deceduto. Generalmente erano associazioni di persone che esercitavano la medesima professione.

Le esequie erano precedute dal corteo funebre: esso poteva essere organizzato anche da un apposito maestro delle cerimonie (lusso al quale generalmente solo i ricchi potevano rivolgersi). Nel corteo il letto funebre sfilava per le vie portato a spalla da un numero variabile di persone, accompagnati da suonatori di flauto, di tromba e di corno. Si poteva ricorrere anche a lamentatrici di professione (praeficae): anche questa usanza si è conservata fino ad oggi. Il feretro era seguito da una mesta schiera di persone vestite di scuro (toga pulla) e, nei funerali di personaggi illustri, dagli stessi antenati del morto interpretati da sosia o da attori con maschere che ne riproducevano le sembianze. Vi era inoltre la consuetudine di esporre nei funerali il ritratto dei propri avi. Dunque, al funerale partecipava davvero tutta la famiglia, compresi gli avi più lontani!

Dopo i funerali iniziava un periodo di lutto di nove giorni (novenalia che ancora si usa per i papi), durante i quali i parenti e gli amici del morto dovevano compiere una serie di riti di purificazione. Presso la tomba veniva immolata una scrofa: era una simbolica offerta a Cerere, dea della terra, che accoglieva nel suo grembo il corpo del defunto (Cicerone, Leggi, 2, 55, 57). Quindi, presso il sepolcro i congiunti consumavano le carni di questo sacrificio, dopo averne destinata una parte al morto e le interiora a Cerere.

Nel primo e nell'ultimo giorno di lutto si consumava infatti presso la tomba un banchetto funebre al quale "partecipava" anche il morto, il quale riceveva l'offerta di cibi e bevande. I romani ritenevano infatti che l'anima potesse ristorarsi e nutrirsi tramite i resti mortali del corpo. Per questo motivo molte tombe a cremazione e a inumazione erano provviste di fori nei quali venivano versati gli alimenti che raggiungevano le ceneri e le ossa del defunto. A volte c’erano, invece, dei “pozzetti unici” per le libagioni, chiusi da una lastrina di marmo con un foro centrale. Anche i sarcofagi potevano avere aperture per questo scopo e, se erano nascosti da murature, potevano ricevere le libagioni tramite tubi di terracotta o piombo.

Tra le molte possibili offerte le fonti epigrafiche ricordano pane, vino, olio, latte, uva, dolci, salsicce, frutta e fiori di ogni genere.

Non sappiamo se si facessero ‘orazioni funebri’ sempre ed in tutti i casi, come si faceva in Grecia e a Roma per personaggi eminenti.

Nelle iscrizioni sepolcrali sono talvolta riportate le disposizioni testamentarie del defunto che, in alcuni casi, lasciava adeguate somme di denaro per garantire la continuità dei riti funerari. Questi erano molto importanti, dato che lo facevano sopravvivere nel ricordo dei vivi. Le iscrizioni citavano le dimensioni del sepolcro e della proprietà sulla quale sorgeva per tutelarsi da eventuali manomissioni future. Spesso si riportavano le multe per i trasgressori.

Nel corso dell'anno particolari cerimonie si svolgevano presso la tomba del defunto in occasione della ricorrenza del suo compleanno (dies natalis), mentre periodiche offerte di fiori e accensioni di lampade potevano avvenire alle Calende, alle Idi e alle None di ciascun mese (CIL, VI, 10248). O, come detto, secondo le volontà testamentarie del defunto.

Un'altra importante ricorrenza per onorare i defunti giungeva a febbraio con la festa dei Parentalia, descritta da Ovidio, (Fasti, 533-638) e da Virgilio (Eneide, 5, 42-105). Nei nove giorni compresi tra il 13 e il 21 di quel mese, ogni famiglia commemorava i propri defunti portando sulla loro tomba bevande, cibo e fiori. In particolare il poeta Ovidio (Fasti, 6, 537- 540) raccomandava di offrire pochi ma significativi doni: ad esempio, sopra un vaso di argilla una ghirlanda votiva, qualche spiga di grano, alcuni granelli di sale, pane imbevuto di vino e violette disciolte. L'ultimo giorno di questa festa era quello in cui si portavano doni ai morti ed era detto Feralia, il 21 febbraio. Era il giorno in cui si svolgevano anche cerimonie pubbliche con offerte e sacrifici ai mani. La parola Feralia deriva dal latino “fero”, portare, portare doni ai morti. Questa usanza era forse stata introdotta da Enea che aveva versato vino e violette sulla tomba di Anchise. Nel giorno successivo, il 22 febbraio, in occasione della festa dell'amore familiare (Cara Cognatio o Caristia) i parenti più stretti ricordavano i propri, cari bruciando incenso e tenendo un solenne banchetto vicino alla loro sepoltura.

Un’altra festa dei morti era quella dei Lemuria, che si celebrava in tre successive date del mese di maggio e più precisamente nei giorni dispari 9, 11 e 13. Come per i Parentalia, durante queste ricorrenze i templi restavano chiusi, era vietato sposarsi e i magistrati non indossavano la toga praetexta. In quei giorni venivano tributati onori agli avi defunti e nella propria casa veniva eseguito uno speciale rituale per allontanare le anime in pena dei trapassati (lemures) e i malefici fantasmi (larvae) in cerca di preda. Il capo famiglia – a mezzanotte quando il silenzio invita al sonno tutti gli esseri viventi – a piedi scalzi e con le mani lavate, lanciava dietro le spalle fave nere ripetendo per nove volte formule divinatorie senza voltarsi e percuotendo, infine, oggetti di bronzo per allontanare dalla casa, con fragoroso rumore, le "vuote immagini" dei morti (Ovidio, Fasti, 419-444).

Durante la festa delle rose (Rosalia), che si celebrava a maggio e a giugno, in date che coincidevano con i giorni di massima fioritura, si portavano rose sulla tomba dei propri cari. Mentre mazzetti di violette si offrivano ai defunti in occasione della festa delle viole nei mesi di marzo e aprile (CIL, VI, 10248). La tomba degli Haterii (Musei Vaticani) ha pilastro con colonnina di rose che ricorda come le colonne venissero appunto decorate in quel modo. Ghirlande e corone di fiori (che compaiono talvolta anche nei sarcofagi) sono anche simbolo di abbondanza, welfare.

I fiori dei morti - che si portavano alla tomba e che si raffiguravano in esse – erano, pertanto, soprattutto rose e viole.

"Le viole color porpora indicano la morte, perché il colore porpora ha una certa affinità con la morte" (Artemidoro, Interpretazione dei sogni, 1, 77). Per lo stesso motivo, le pareti delle tombe erano spesso dipinte di color viola/porpora. Già nei poemi omerici si definisce "purpureo" il sangue versato dai guerrieri in guerra. Le violette si portavano sulle tombe dei propri cari nel giorno della "festa delle viole" a marzo e aprile.

Talvolta si raffigura un "cesto" fatto di vimini intrecciati, comunque sorte di reti, dove all'interno si tenevano petali di rosa. Erano oggetti esistenti davvero ed usati dai più ricchi romani – i più stravaganti – per decorare e soprattutto profumare gli ambienti...di odore di rose! Potevano certamente essere utilizzati anche per davvero all' interno dei sepolcri. Si trovano nel sepolcri spesso buchi che servivano per mettere chiodi di ferro per appendere ghirlande floreali

Più o meno per lo stesso motivo si raffiguravano sulle pareti balsamari di vetro, per rendere più accogliente e gradevole l'edificio sepolcrale. E spesso si raffiguravano anche – oltre ad uccellini e piante – strumenti musicali: flauti (dritti e ricurvi), cembali (dischi di bronzo simili ai nostri piatti), tamburelli, lire con casse armoniche ovali e siringhe (il flauto campestre inventato dal dio Pan unendo insieme con la cera sette canne palustri di misura decrescente (Ovidio, Metamorfosi, 1, 689-712; Virgilio, Bucoliche, II, 31-37).

Ma torniamo ora alle considerazioni sull’arte funeraria e sui simboli.

In generale, nell'arte funeraria ci sono due grandi tipi di raffigurazione: scene serene (perché nell'aldilà era ragionevole ritenere di poter ‘vivere’ tranquillamente!) e dunque scene generiche di campagna o comunque bucoliche ma anche  dialoghi con filosofi. Altrimenti defunti circondati da figure simboleggianti le arti; o ancora scene mitologiche che dovevano far riflettere sulla morte e/o dare indicazioni sul tema della morte oltre a dare consolazione. Questi, nel contempo, spiegavano e davano esempi significativi di vite esemplari ma anche di vite maledette; persone buone e persone cattive; davano esempi, mostravano l’ordine del mondo, le differenze tra gli dei e gli uomini. Ma le rappresentazioni potevano avere anche intenti celebrativi: nudità eroica, cacce= virtus del defunto. Coniugi raffigurati nell’atto della dextrarum iunctio (stringersi la mano destra; simbolo di amore e fedeltà coniugale oltre che reale atto del rito matrimoniale); “dialoghi” tra personaggi mitologici, concordia, compiere sacrifici.

Dioniso è assai ricorrente nell'arte funeraria pagana in quanto poteva regalare la vita eterna (era un culto misterico e non lo conosciamo pertanto pienamente). È un dio importato dalla Grecia ma che aveva origine nell’attuale Armenia. Così come l'uva si trasforma in vino (il vino ha molto più valore dell'uva), così Dioniso poteva garantire all'uomo una sorta di rinascita trasfigurata (o nuova nascita) dopo la morte. Non era solo felicità ed allegria regalata sulla terra dal vino.

Connesso a Dioniso è Arianna che lui "salvò" sull'isola di Nasso. Infatti, Arianna era stata lì abbandonata da Teseo, il quale aveva approfittato di un profondo sonno di lei per svignarsela e abbandonarla. Ma, mentre lei ancora dormiva, Arianna venne 'salvata' e presa con sé da Dioniso, che ne fece la sua sposa! E, nell'arte funeraria questo risveglio di Arianna simboleggia un risveglio ad una nuova vita. In una nuova e migliore dimensione (ultraterrena). Siccome Dioniso stava passando di lì col suo consueto chiassoso e godereccio seguito di satiri, menadi e centauri, anche essi vengono spesso raffigurati nell'arte funeraria. I centauri sono spesso cavalcati da amorini. I centauri sono spesso collegati a Dioniso probabilmente perché smodatamente amanti del vino. Talvolta, nell'arte funeraria (arte fittile) i centauri trasportano le salme dei defunti. Si tenga sempre a mente che Dioniso è gioia, dunque anche solo per questo lui (ed i suoi simboli) si mettono nelle tombe, per contrastare la tristezza.

Facciamo ora un approfondimento sui temi raffigurazioni mitologiche maggiormente presenti nell’arte funeraria. Oltre all’esempio già citato di Dioniso ed Arianna possiamo citare anche Alcesti ed Admeto: Alcesti era la moglie di Admeto e decise di morire al posto suo. Admeto aveva ottenuto da Giove la possibilità di non morire quando il suo momento sarebbe giunto ma solo alla condizione che egli avesse trovato qualcuno disposto a morire al posto suo. Ma, quando questo momento giunse, incredibilmente egli non trovò nessuno disposto a farlo; nemmeno i suoi anzianissimi genitori. Ecco dunque che si sacrificò sua moglie Alcesti: supremo segnale di infinito amore per il marito! Per questa vicenda esistono, comunque, anche due "spin-off" (o se volete seguiti): una narra che Persefone, commossa, restituì Alcesti ai vivi; un' altra che fu Ercole a riportarla nel mondo dei vivi (come narra Euripide nella sua tragedia del 438 aC).

Raffigurazioni alquanto presenti sono anche Adone accanto a Venere: egli era conteso tra la dea dell' amore e Persefone (cioè tra la vita e la morte) e pertanto trascorreva negli inferi l'inverno e tornava alla vita accanto a Venere in primavera; è dunque simbolo di rinascita.

Selene, la dea lunare, di notte viene e visitare Endimione nel suo sonno perenne: simbolo di amore eterno e fedele insieme alla speranza di ritrovare i defunti nel sogno.

Protesilao accanto a Laodamia: egli fu il primo tra gli eroi greci a morire nella guerra di Troia ma per volere degli dei tornò momentaneamente alla vita per rivedere un' ultima volta la sua fedelissima moglie.

Achille e Pentesilea: L’eroe uccise la regina delle Amazzoni con una lancia ma se ne innamorò subito dopo. Pentesilea e le Amazzoni erano giunte in aiuto ai troiani ed inizialmente avevano quasi rovesciato le sorti della guerra in favore di questi ultimi. Ma poi Achille uccise Pentesilea. Subito dopo, sogliandola delle armi e soprattutto nel momento di toglierle l’elmo, l’eroe scoprì l’incredibile bellezza dell’amazzone. E si invaghì talmente tanto da compiere atto di necrofilia. In seguito volle darle una sepoltura regale ma venne deriso da Tersite, il quale aveva assistito quello che Achille aveva fatto. Tersite, inoltre inferse un pugno al cadavere di Pentesilea, facendo uscire gli occhi dalle orbite. Per vendicarla, Achille colpì Tersite con un pugno talmente potente da spaccargli tutti i denti e da fargli ruzzolare l’anima giù nel tartaro. Ciò suscitò grande indignazione tra i greci. Diomede, cugino di Tersite, gettò il cadavere di Pentesilea nel fiume Scamandro ma Achille lo recuperò e lo fece seppellire con solenni esequie.

 

 

Vediamo ora le divinità e gli dei maggiormente rappresentati nell’arte funeraria.

DEI

Si raffigura spesso Oceano: simbolica immagine di eternità, definita non a caso da Omero "origine degli dei e di ogni cosa" (Iliade, 14, 201 e 246-302) per la sua inesauribile forza rigeneratrice.

Venere è molto presente nei contesti funerari perché è la dea dell'amore e dunque della vita. Venere fa generare la vita! Anche lei, pertanto, è forza vitale e per questo motivo sono a lei legati i simboli dell'ariete e del toro. Questi erano anche gli animali che venivano sacrificati nei sacrifici a tutti gli dei. Anche la pernice è legata a Venere: perché ha una accesa sessualità e leggendaria capacità di fecondazione, come scritto da Aristotele, Ateneo, varrone e Plinio. Per quest'ultimo le pernici "sono preda di una follia amorosa così grande che spesso, accecate da questa, si fermano volando sopra la testa dei cacciatori" (cit., 5, 103). Egli sottolinea anche l'indole protettiva di questi uccelli, capaci di incredibili stratagemmi a difesa della propria nidata e della loro stessa vita. Sacri a Venere sono anche le colombe, che sono infatti spesso presenti nelle tombe.

Mercurio è anche il "conciliatore del sonno". Spesso a lui associato c'è Hypnos, il Sonno che è figlio della notte e fratello gemello della morte (ossia Thanatos). Simboli di Sonno (Hypnos) sono i fiori di papavero (soporiferi).  Simboli del Sonno, della Notte e della Morte. Il sonno presuppone la speranza di un risveglio in un'altra dimensione dopo la morte. Si credeva che i papaveri crescessero rigogliosi davanti all'oscura caverna, dimora del Sonno (Ovidio, Metamorfosi, 11, 605). I fiori di papavero di Sonno sono spesso tenuti da amorini con ali di pipistrello, il cui nome deriva dal latino vespertilio, "animale vespertino" (da vesper, ossia sera). Il pipistrello vola di notte ed era pertanto considerato il tipico abitante degli inferi; per estensione è simbolo di tenebre e del regno dei morti.

I Dioscuri sono spesso raffigurati nei sarcofagi e nell'arte funeraria: e ciò per una serie di motivi. Oltre ad essere i protettori della cavalleria e dell'esercito (ma anche della navigazione e del commercio e degli affari), erano divinità salvifiche che con il loro apparire liberavano da tutte le disgrazie senza che si riportasse alcun danno. Ma erano soprattutto raffigurati per via della loro storia: erano i figli di Zeus ed erano inseparabili. Secondo una versione del mito, Polluce nacque, come la sorella Elena, da un uovo generato da Leda, regina amata da Zeus sotto forma di cigno; Castore invece era nato come la sorella Clitennestra, da madre Leda e padre Tindaro, re di Sparta. Per questo motivo solo Polluce era immortale. Ma, alla morte di quest'ultimo, Polluce ottenne da Zeus la possibilità di donare al fratello parte della sua vita immortale. Ecco dunque che ottennero la possibilità di stare un giorno tra gli dei ed uno tra gli uomini! Ecco che dunque tornavano a vivere a giorni alterni. Per lo stesso motivo nella costellazione dei gemelli le loro stelle brillavano un giorno sì un giorno no (Igino, Mitologia astrale, 22). Data l'alternanza fra luce e tenebre ed il ritorno da morte a vita, i Dioscuri sono ricorrenti nell'arte funeraria.

 

ANIMALI

L'animale che maggiormente si raffigura nei contesti funerari è il pavone: la sua carne è durissima (tanto che era difficile da masticare quando li si cucinava) e per questo motivo imputridisce a stento - poteva restare immutata anche per moltissimo tempo - ed era considerata dunque quasi incorruttibile. Ecco dunque perché l'animale era considerato simbolo di vita eterna. Inoltre, come è noto, questo animale perde le penne della coda in inverno per poi guadagnarle di nuovo in primavera. Simbolo di rinascita dunque! In definitiva, l'animale è simbolo di eternità, rinnovamento ed immortalità. In seguito, nell'arte paleocristiana, pur rimanendo intrisi dello stesso significato simbolico, i pavoni sono anche raffigurati vicino a vasi, bevendone spesso il contenuto: diventano pertanto simbolo dell'anima che attinge benefici e salute immortale da Dio.

Il cigno, spesso raffigurato in contesti funerari, incarna la dolcezza del canto, che si fa particolarmente struggente e soave nell'imminenza della morte: "i cigni, in quanto sacri ad Apollo, sono profetici e prevedono le cose buone che sono nell'Ade, così cantano e si rallegrano in quel giorno più intensamente che nel tempo di prima" (Platone, Fedone, 85).

In generale gli uccelli, sia in volo sia posati su rami o ghirlande simboleggiano l'anima del defunto o semplicemente si raffigurano per evocare la serenità evocata dal loro canto. Va inoltre ricordata la consuetudine romana di regalare uccelli in occasione delle feste dei parentalia (13-21 febbraio), riservata ai riti in ricordo dei defunti e della Carità (22 febbraio), dedicata all'amore familiare. In generale gli uccelli trasmettono idea di armonia e serenità ai morti e ai vivi che entrano nel sepolcro per le onoranze.

Il gallo annuncia il giorno ed è pertanto un simbolo e speranza di una vita che non tramonta ma che può continuare in una diversa dimensione. Ma simboleggia anche la speranza di interrompere il sonno della morte. Ed è anche sacro a Mercurio psicopompo che accompagna le anime nell'aldilà.

Abbiamo già parlato di Venere e dei suoi animali simbolici. Dato che l’amore, di cui lei è la dea, è forza vitale, per questo motivo sono a lei legati i simboli dell'ariete e del toro. Ed anche la pernice è legata a Venere: perché ha una accesa sessualità e leggendaria capacità di fecondazione, come scritto da Aristotele, Ateneo, Varrone e Plinio. Per quest'ultimo le pernici "sono preda di una follia amorosa così grande che spesso, accecate da questa, si fermano volando sopra la testa dei cacciatori" (cit., 5, 103). Egli sottolinea anche l'indole protettiva di questi uccelli, capaci di incredibili stratagemmi a difesa della propria nidata e della loro stessa vita. Sacri a Venere sono anche le colombe, che sono infatti spesso presenti nelle tombe.

Il pipistrello, il cui nome deriva dal latino vespertilio, "animale vespertino" (da vesper, ossia sera), vola di notte ed era pertanto considerato il tipico abitante degli inferi; per estensione è simbolo di tenebre e del regno dei morti.

 

ALTRI SIMBOLI

Raffigurazioni di sileni potevano rappresentare le varie della età della vita: i sileni venivano raffigurati dalla giovinezza alla vecchaia, con relativi simboli (tra cui, per la giovinezza potevano avere loro anche falli giganti! Altrimenti strumenti musicali che ricordano la gioia ed io vigore della giovinezza). Se tengono torcia verso il basso è simbolo di morte; idem se versano vino per terra, a simboleggiare il sangue: vita che si spegne.

La caccia al cinghiale caledonio (Atalanta e Meleagro), comunissimo nell' arte greca e romana, diventa tema iconografico di molti sarcofagi nel III sec dC: per celebrare le virtù eroiche del defunto che prevalevano sulle forze malefiche, simboleggiate dal cinghiale devastatore. Le scene di caccia sono molto comuni sui sarcofagi: per esaltare il coraggio e le virtù eroiche del defunto, anche se questo non fu magari mai davvero un cacciatore. Combattimento contro bestie feroci, caccia ai cinghiali (rievocazione di Meleagro), ai cervi, gazzelle, leoni, orsi.

Si raffigurano alberi sempreverdi o che non perdono le foglie: vita eterna, speranza di prosecuzione della vita dopo la morte, anche se in diversa dimensione.

L’edera come la vite è consacrata a Dioniso ed è abbondantemente rappresentata nella ceramica greca, particolarmente in quella attica. Questa pianta avvolge il tirso, il bastone del dio, ed è usata dalle menadi e dai satiri durante i riti dionisiaci. Proprio questo suo legame con Dioniso ne fa un simbolo d’immortalità e di rigenerazione.

 

Nei sarcofagi i defunti sono identificati dal "parapetasma", ossia un velario drappeggiato alle loro spalle, talvolta retto da geni funerari. Questo velario mette i ritratti dei defunti più in risalto e conferisce maggiore dignità.

Talvolta il defunto veniva raffigurato all' interno di un clipeo, ossia all'interno di una sorta di scudo circolare (clipeus). Questo clipeo generalmente viene tenuto da amorini volanti o da vittorie alate. È un modo per celebrare oltremodo il defunto. Infatti, questo tipo di raffigurazione era sempre stato usato nel mondo romano per celebrare uomini illustri e generalmente si eseguivano in stucco, marmo e metallo. Esempi celebri furono i ritratti clipeati fatti collocare da Appio Claudio (console bel 296 aC) nel tempio di Bellona a Roma (Plinio il vecchio, storia naturale, 35,12) e quelli fatti mettere da Marco Emilio (console nel 78 aC) nella basilica Emilia e nella sua abitazione. Ma questi ritratti clipeati li possiamo anche vedere nelle pitture pompeiane, dove si vedono collocati alle pareti e tra i colonnati. Spesso all'interno del clipeo sono rappresentati entrambi i coniugi o anche solo un'iscrizione celebrativa sul defunto.

Soprattutto le donne tengono in mano un pomo: perché andrà offerto a Proserpina. In genere è una melagrana, simbolo di vita e rinascita ma anche frutto collegato al mondo dei morti.

I defunti veri e propri all'interno del sarcofago avevano sempre una o più monete (spesso poste sopra agli occhi); erano l'obolo da pagare a Caronte per oltrepassare lo Stige.

Spesso i defunti hanno una mano portata sopra/in avanti, spesso vicino alla bocca: è gesto oratorio, descritto da Apuleio nelle Metamorfosi (2, 21): "le ultime due dita chiuse e le altre cose ben tese con il pollice spinto in avanti".

Spesso i defunti sono raffigurati 'pensanti', spesso con mano sotto al mento: meditano sulla morte, ricordano i cari estinti o ascoltano un filosofo che spesso è anche presente. Spesso hanno un rotolo in mano: esso è associato alla filosofia (all’interno bisogna immaginare un testo filosofico) ed al filosofeggiare (generalmente, nei pressi di un personaggio con un rotolo in mano, c’è anche un filosofo).

 

Da sempre la vita dell'uomo è scandita dal ritmo delle stagioni, che rappresentano l'inesorabile trascorrere del tempo; un tempo che, nelle sue cicliche trasformazioni, passa ma non finisce, perché destinato a tornare ogni anno in maniera sempre diversa ma, nel contempo, uguale (eterno ritorno). Nell'arte funeraria romana le Stagioni, oltre a rappresentare i differenti momenti dell'esistenza dell'uomo, sottendono/rimandano al concetto di una vita che non muore, sopravvivendo in una diversa dimensione nel mondo dei morti e nel ricordo dei vivi. Le stagioni sono identificate dai loro attributi, che sono spesso gli stessi dei calendari (simboli delle attività lavorative della stagione o delle attività della vita quotidiana).

Simboli cosmici nel ciclo della vita umana sono Lucifer - l'astro nascente del mattino - e Vesper - la stella della sera. Lucifero letteralmente significa "portatore di luce" ed è, in realtà, il pianeta Venere, così chiamato quando appare nel cielo prima dello spuntare del sole. Ma il pianeta Venere era chiamato Vespero o Espero quando appariva subito dopo il tramonto. Simboleggiano dunque aurora e tramonto (vita e morte) e spesso viceversa per simboleggiare la speranza di rinascita dopo la morte. Lucifero cavalca un cavallo bianco con una fiaccola rivolta verso l'alto. Vespero è simile ma con la fiaccola verso il basso. La fiaccola verso il basso simboleggia ovviamente il passaggio verso il mondo tenebroso della morte.

In ambito funerario Medusa venne raffigurata come metafora e custode del mondo dei morti (Omero, Odissea, XI, 633-635), assumendo un significato apotropaico a tutela del sepolcro e del defunto.

 

Si raffigurano sui sarcofagi spesso leoni che azzannano altri animali. È ovviamente simbolo della morte. Ma è anche un simbolico ricordare cosa avviene all'interno del sarcofago – il corpo che viene divorato da una forza invisibile – e, non a caso, ‘sarcofago’ in greco significa proprio "divoratore del corpo".

I sarcofagi detti strigliati sono quelli caratterizzati dal motivo decorativo a S. Il nome deriva dallo strigile, che si utilizzava per rimuovere l'olio dal corpo, per detergerlo. Forse simboleggia anche le acque da attraversare per raggiungere l'isola delle anime o quelle dello Stige. Ma non esistono sicure conferme di ciò. Maschere teatrali sono spesso presenti: perché simboleggiano le arti (i defunti speravano di avere vita lieta nell' aldilà, dunque caratterizzata da 'belle e culturali attività' come il teatro) ma hanno anche funzione apotropaica.

Nelle are sepolcrali si raffigurano quasi sempre da un lato la patera ombelicata, bassa scodella per versare i liquidi durante i sacrifici e dall'altra l'urceus, una brocchetta monoansata, che conteneva il liquido da versare. Ma anche altri oggetti legati ai riti e pratiche funerarie quali balsamari, bruciaprofumi, lucerne.

Sulle facciate dei monumenti sepolcrali di famiglia "a cella" (dette anche “a camera”, sostanzialmente a forma di casetta) c'erano spesso piccole formelle in terracotta che raffiguravano l’attività lavorativa principale dei membri della famiglia o del capofamiglia; celebri quelli della necropoli di Porto.

Gli edifici sepolcrali familiari avevano spesso sulla facciata (spesso sul timpano sotto le falde del tetto) raffigurata (o collocata fisicamente) un’ascia: essa indicava la sacralità e la proprietà inviolabile del sepolcro. Spesso era presente anche iscrizione S.A.D. (sub ascia dedicavit o altra forma equivalente). Al piano superiore dell’edificio c'era spesso terrazza o comunque piano superiore per i refrigeria e/o cerimonie in onore e ricordo dei defunti. I due piani erano collegati da una scala (quasi sempre interna). Di fronte c'era quasi sempre un cortiletto scoperto di servizio ma che si usava anche per i banchetti funerari o altre cerimonie. Poteva anche esserci un ustrinum, ossia il punto in cui i corpi dei defunti venivano cremati (ma presto tali ustrinum divennero vietati all’interno delle sepolture e bisognava obbligatoriamente utilizzare ustrinum pubblici per tutti). Era spesso presente anche un pozzo, incassi, tavolini e triclini in muratura (dove all’interno si potevano anche seppellire defunti). In questi cortili potevano esserci anche sepolture aggiuntive, soprattutto i liberti e, più raramente, degli schiavi di famiglia.

Le tombe erano generalmente illuminate in molti modi. Ma il più delle volte usando lucerne, proprio come si faceva nelle case normali dei vivi. Ed abbiamo ancora molte iscrizioni sepolcrali dove si leggono le ultime volontà dei defunti tra le quali si trova spesso la volontà di avere, nel proprio sepolcro, lucerne accese. A seconda delle 'istruzioni', le lucerne potevano essere accese ogni giorno, tre volte al mese, alle Calende, alle Idi e alle None. E questa tradizione è giunta fino a noi: anche nelle nostre tombe sono, infatti, presenti i lumini! Le lucerne si ritrovano spesso all'interno dei monumenti sepolcrali. Venivano generalmente collocate sopra i sarcofagi o sul piano delle nicchie per le urne funerarie. L'olio usato era quello di oliva.

I sarcofagi si collocavano in corrispondenza degli arcosoli. Talvolta anche sotto il pavimento ma in questo caso, ovviamente non erano decorati. Anzi, in caso di sepolture sotto il pavimento si ricorreva quasi sempre a sarcofagi fittili, ossia in terracotta o anche di legno. E spesso nella stessa tomba c'erano sia sarcofagi sia urne funerarie. Queste ultime avevano le forme più diverse (vaso, urna quadrata, rettangolare, più o meno decorata, con o senza raffigurazione del defunto). I vasi potevano essere di materiali molto preziosi (alabastro, onice). Spesso nei pressi dell'urna o del sarcofago poteva esserci la maschera funebre (realizzata in gesso; inizialmente si creava la forma del volto col gesso pressato sul volto del defunto. Poi, nella forma così ottenuta si versava la cera). Queste maschere di cera (magari trasformate successivamente in statue di marmo) venivano custodite all'interno delle case in appositi armadi e portati talvolta in processione; soprattutto in occasione di funerali di altri membri della famiglia e/o ricorrenze particolari ed importanti legate al defunto e/o alla famiglia). Nel caso del funerale di un membro della famiglia era pertanto presente tutta la famiglia antecedente!

Per i romani era importante lasciare traccia del proprio lavoro e di ciò che si era fatto in vita! Perché per i romani il lavoro così come i lineamenti del viso ed il nome era rappresentativo dell’identità individuale! Questo era per i romani qualcosa di assolutamente sacro! Ed i romani volevano che tutto ciò durasse in seguito e fosse ricordato dai posteri! Anche per questo motivo si realizzavano le maschere funerarie, col gesso dalle quali poi si potevano ottenere statue ritratto in marmo. Per il culto degli antenati. Da tutto ciò deriva il verismo dell’arte romana, con bellezze e difetti dei visi.

I sarcofagi venivano acquistati già fatti e completi, da completare in alcuni particolari (magari solo la faccia del defunto) o totalmente su commissione con tanto di disegno preparatorio concordato. Alcuni tipi iconografici sono ricorrenti (standard): guerre, battaglie: sarcofagi appartenenti a generali ma potevano semplicemente rimandare alla virtus del defunto, militare o civile che fosse. Achille e Pentesilea oppure Alcesti ed Admeto: ricordano l’amore tra i due coniugi sepolti entrambi all’interno del sarcofago.

Era abbastanza comune seppellire più persone all’interno dei sarcofagi. Non a caso, questi possono avere spesso dimensioni notevoli. Come abbiamo appena detto, si seppellivano insieme moglie e marito ma anche genitori e figli.

Le tombe dei poveri non erano assolutamente come quelle descritte finora. Le tombe più povere consistevano in semplici inumazioni nel terreno, segnalate in superficie da tegole messe a contrasto, a formare una sorta di tettuccio ("a cappuccina".  Altrimenti lastra di marmo (anche di reimpiego, cioé riciclata!). Anziché urne marmoree potevano essere usate una cassa fittile.